La dieta mediterranea patrimonio unesco

Il nostro Club ha aderito al progetto Nazionale dei Club UNESCO  “Italia Dolce Salata”: Ricette… e non solo in tempi di Corona Virus.
Il progetto era nato lo scorso anno in occasione del decennale della dichiarazione della Dieta Mediterranea “Patrimonio Unesco”, e spostato a quest’anno.
Venivano richieste due ricette: una dolce e una salata e le relative foto. La nostra socia ed amica Adriana Zuddas
che pubblica nell’ ”Accademia della Cucina”, ha realizzato questo progetto, scegliendo  queste  ricette:
il caschà di Carloforte e la torta di mandorle degli sposi. Le ha scritte corredandole di notizie legate alla storia e alle tradizioni della Sardegna in generale  e  in particolare a quelle di Carloforte per il cashcà e di Dolianova per la torta degli sposi.

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Stile di vita identitario dei popoli del Bacino del Mediterraneo. Il cuscus.

Se vi è un cibo capace di evocare integrazione di culture, gioia di vivere, socialità, questo è il Cous Cous in riferimento al quale, Edmondo De Amicis, nel suo libro Marocco, conia l’espressione “Ciò che la testa divide lo stomaco unisce”, precisando che se si imparasse a ragionare con i gorgoglii dello stomaco, nel Mediterraneo, ma non solo, ci sarebbero meno guai.

E afferma ancora “E’ il cuscus ad unire etnie e popoli che la politica, le ideologie e le religioni non riescono a mettere insieme. Un piatto che di paese in paese aggiunge accenti, consonanti, e abbondante condimento…kuskus nella Costa d’Avorio, cous cous in Francia, cùscusu a Trapani……Cascà a Carloforte, ma che a tavola, qualunque sia la grafia, fa tutti contenti.

E a riprova di quanto detto intraprendiamo con l’immaginazione un viaggio verso Carloforte, imbarcandoci, se il tempo lo permette, al Porto di Portoscuso o in quello non meno affascinante di Calasetta.

Per un attimo dimentichiamo le ambasce del Corona Virus; lo scorso anno il Comune, annunciò un rinvio della Sagra del Cuscus a settembre e, per quest’anno, nessuna comunicazione ufficiale, anche se gli estimatori sanno per certo che “cambiando il vento”, la manifestazione si terrà.

Gli ingredienti per un viaggio in mare, sul traghetto di linea, ci sono tutti. Non importa se il tragitto sarà breve, basterà, comunque, per assaporare, insieme alle voci e al profumo del mare e ai colori riflessi ovunque, il senso dell’avventura.

E, finalmente, interrompendo il fluire libero dei pensieri, cullati dalla leggera brezza di Zefiro, compare in lontananza il porto di Carloforte, e il suo borgo, per molti aspetti ligure, percepibile ancora nella parlata locale, sardo di adozione, che fin dal 2010, grazie all’amministrazione Stefanelli e, a buon diritto, è iscritto nell’elenco del Club de “I Borghi più Belli d’Italia”.

Bisogna dire che a diffondere il cuscus nel Mediterraneo furono per primi gli Arabi delle conquiste, poi tra il 600° e il 700° a continuare questa divulgazione furono i corallari, pescatori di corallo genovesi di Pegli, trasferitisi nell’isola di Tabarca, nei pressi di Tunisi e poi diffuso, nell’esercizio della loro attività marinara, in Spagna, Francia, Sardegna, Liguria e altri paesi europei.

La Sagra del Cuscus Tabarchino, a Carloforte, Isola di San Pietro (in tabarchino uiza de San Pé), prov. Carbonia Iglesias.

In piena Primavera, in un contesto di bellezze architettoniche e ambientali e, presenti persone festanti provenienti da tutta l’isola e anche straniere, prevede, organizzata da Comune oggi con a capo l’infaticabile e illuminato Sindaco Salvatore Puggioni e con l’apporto unico di vivaci e sapienti Associazioni locali, ospitati nelle Piazze principali del paese:

Apertura del Villaggio Espositivo– Offerta di specialità enogastronomiche di Carloforte-Apertura Villaggio Medioevale con sbandieratori tamburini e figuranti- Mostra fotografica, Passeggiata a 6 zampe, in compagnia del proprio cane, guidato da istruttore (lungo la via del Sale);

Degustazione di Cuscus (Cashcà) e di altre specialità tabarchine, compresa degustazione di straordinari vini delle Cantine del Sulcis Iglesiente

– Scuola di Cuscus, con preparazione della ricetta- Aperitur nei locali che propongono aperitivi cuscus- Degustazioni- Esibizioni musicali- Escursioni nelle spiagge e altre attrattive naturali e storiche dell’Isola di San

pietro:

Agostino Stefanelli, già Sindaco di Carloforte e carlofortino autentico, dopo aver ricordato che nel 1738 venne fondata la cittadina di Carloforte sull’isola di San Pietro, riportando una conversazione avuta di recente con Vittorio, titolare del ristorante locale Vittorio il Mago, ricorda che i Liguri di Tabarca, portarono con sé una delle ricette più antiche della cultura magrebina: il cashca. Arundiò (incocciare) è la prima operazione, ampiamente descritta nella successiva ricetta. Aggiunge che ogni famiglia conserva ancora in casa, l’antica pentola forata proveniente dalla Tunisia…..precisando che oltre alle verdure, d’inverno si aggiunge alla semola, la carne di maiale.

Questa è la Ricetta tradizionale del Cascà de Tabarca (tradotto Cuscus alla carlofortina). Un’altra Carlofortina doc, che non vuole essere citata mi racconta:

U cashcà                                                                                                                                  Il Cashcà

U cashcà u l’è in piattu tipicu da cujin-a tabarkin-a e u l’è shquàiji scimile au ciù notu “cuscus” du Nord Africa.

A bòse de shtu piattu a l’è a semmua cötta a vapure e cundia cuin saccu de verdüe che vegnan preparè a pòrte.

Pe primma cosa l’è necessòiu inümidì a semmua cun ègua e öiu, in moddu tole che i vòri granelli assorban u liquidu sensa impashtòse tra liotri.

Fèta queshta preparassiun, se passe a cuttüa vea e proppia.
Se mette suvia a ‘na pignatta cun ciü o menu quattru littri d’ègua, u cashcà cua semmua drentu e cuarche pessin de cuiga de porcu.
U tüttu u se fa cöje pe circa tre ùe.

In tu frattempu se passe â preparassiun de verdüe, che cushtituiscian u cundimentu da semmua.
U garbüju taggiau a lishte u se fa rusulò cu cosciù, a siaula e a ravanèa;
i puisci cuè favette e articioccule se fan trifulò intè ‘n tian cuìn po’ de persa;
i sciaiji, che se mettan a bagnu a saia primma, vegnan buggii a porte cun dótrai shpighi d’aggiu, mentre’nvecce e maizan-e, taggé a dòdu, se frizzan.

Quende infin a semmua a l’è cötta, a se cundisce cué verdue ancun còde e cui ‘na shpinsigò de shpessa cannella.

U cashcà u va serviu tiepidu, pe cui doppu u cundimentu da semmua, l’è megiu lasciòau riposò pe quarche ùa.

Da baive? Quellu che uài, ma suviattüttu ègua bella freshca.

Il cashcà è un piatto tipico della cucina tabarchina, variante del più noto “cuscus”, pietanza diffusa in tutta l’Africa mediterranea.

La base di questo piatto è la semola cotta a vapore, condita poi con molte verdure che vengono preparate a parte.

Per prima cosa è necessario inumidire la semola con acqua e olio, in modo tale che i vari granelli assorbano il liquido senza impastarsi tra di loro.

Eseguita questa preparazione, si passa alla cottura vera e propria.
Si sovrappone, ad una pentola contenente all’incirca 4 litri d’acqua, la cuscussiera, che è simile ad un colapasta di terracotta, nella quale viene posta la semola ed alcuni cubetti di cotica di maiale.
Il tutto si fa cuocere per circa 3 ore.

Nel frattempo, si passa alla preparazione delle verdure, che costituiscono il condimento della semola.
Il cavolo tagliato a listarelle si fa rosolare col cavolfiore, la cipolla e la carota;
i piselli con favette e carciofi vanno trifolati al tegame e a fine cottura, profumati con della maggiorana;
i ceci, messi la sera prima in ammollo, vanno lessati con alcuni spicchi d’aglio, mentre le melanzane, tagliate a “dado”, si friggono.

Quando infine la semola è cotta, la si condisce con le verdure ancora calde e la si profuma con della saporita.

Il cashcà va servito in tavola tiepido, per cui dopo il condimento della semola, la pietanza dovrà riposare per alcune ore.

Da bere? Quello che volete, ma soprattutto acqua bella fresca.

Si noterà che la ricetta, rigorosamente descritta in riviste specializzate, di cui il più famoso degli chef, Luigi Pomata è autentico “vate”, in realtà affida all’interpretazione del cuoco l‘indicazione delle quantità dei prodotti, partendo da una base, per quattro persone, di 350 g. di semola, 150 g. di ogni singola verdura o legume, cannella olio d’oliva.

Il risultato sarà comunque straordinario e ci induce a dare ragione al De Amicis.

Il vino di accompagnamento per questa pietanza, suggeritomi dal medico e brillante Accademico Sommelier, Roberto Pisano iscritto alla omonima Associazione, è il Vermentino di Sardegna DOC fresco e sapido, con una buona consistenza oppure un Carignano del Sulcis DOC giovane e dinamico, i cui vitigni sono entrambi coltivati nell’Isola di San Pietro, seppure in quantità limitate

La torta dolce di mandorle o degli sposi “Sa Trutta de Is Isposus”. Dolianova (Sicci) Prov. Sud Sardegna.

Il mandorlo (sa Matt’è Mendula) che i Fenici importarono dalla Grecia in Sicilia e che si diffuse con rapidità in tutto il Mediterraneo, a tutti gli effetti componente della famiglia della Dieta Mediterranea, si mostra timidamente fin dagli ultimi giorni di gennaio quando i rigori dell’inverno sembrano attenuarsi, regalandoci con i suoi fiori bianchi e rosa, preludio di frutti dolci o amari, sensazioni della imminente Primavera.

Il suo uso prevalente nella cucina sarda dei dolci ci permette di riportare l’antica ricetta della torta dolce di mandorle, presente nelle tavole sarde, specie nel Campidano, per la festività del santo patrono Biagio, vescovo armeno.

Il Covid ha messo a tacere, per il momento, le manifestazioni di popolo. Ma la memoria nei paesani e nel Comitato delle Celebrazioni della Festa di San Biagio, è ben salda.

La processione che ha sempre richiamato numerosi turisti, non sfilerà festosa per le vie del paese, con l’imponente giogo di buoi bardato a festa, consapevoli questi del sacro peso che trasportano: la maestosa statua del Santo Biagio, dono votivo della nobile famiglia Bonfant,…nell’anno 1895… grata al santo per la guarigione del figlio…..

Risalente alla metà dell’800, essa rappresenta il Patrono, invocato per i mali alla gola, nell’atto di tendere la mano verso una bambina, affiancata dalla madre in ginocchio, appena liberata la prima, da una spina conficcatasi in gola, grazie al tocco del Santo.

E’ questa una festa molto antica che conserva un tratto prevalentemente religioso e familiare ed è la celebrazione dell’ospitalità e della convivialità che rinsalda i legami familiari parentali e sociali. Non mancano infatti in ogni famiglia, attorno alle tavole sontuosamente imbandite, parenti e amici che, ricambieranno in analoghi frangenti, l’ospitalità. Ricorrenza lontana dagli stereotipi chiassosi che hanno finito per rendere tutte uguali le sagre e le feste. Ad Agosto, però, le celebrazioni civili rendono la festa meno intima.

La festa si propaga nell’aria, fin dal primo mattino, mentre si spengono gli ultimi bagliori del falò acceso la sera prima nell’ampio piazzale della Chiesa. Le campane, suonano a distesa annunciando la Messa solenne, si ode qualche scoppio sonoro, anticipazione dei fuochi d’artificio che accompagneranno il tramonto.

Dalla cucina si spandono per la casa, per i cortili e lungo le strade e così da ogni casa i profumi del brodo di carne tradizionale, sensazioni di alloro e pomodoro secco e i sentori degli arrosti che profumano di mirto. Quasi in un abbraccio ideale dell’intera comunità.

Ma la torta di mandorle è già pronta nelle case dal giorno prima.

Era la torta dei matrimoni, delle cresime, della Candelora, presente “Sa Priora”, il cui significato mi sfugge ma che mi spingo a far risalire al latino “prior –prius” come prima o maestra di cerimonia, che presiede, per tradizione, alla celebrazione della Candelora.

Al termine della messa verranno offerti ai fedeli “is pistoccheddus o piricchittus de Santu Brai” (S. Biagio, vescovo armeno del 2° sec d.C.), piccoli cubi di pasta che secondo l’agiografia ricordano il gesto di una madre che dopo il risanamento miracoloso della figlia, volle ricompensare il vescovo Biagio con un pezzo di pane e due candele che potessero illuminare la prigione nella quale veniva condotto.

Le due candele benedette incrociate ancora oggi vengono accostate alla gola dei fedeli che si avvicinano con devozione all’altare.

C’è stata fino a qualche anno fa, attivissima a Dolianova, S. Pantaleo, la Sig.ra Gesuina Pittiu, nessuno l’ha finora uguagliata nella sua arte dolciaria e in specie nella realizzazione della torta di mandorle.

Uno dei suoi segreti era sicuramente la manipolazione degli ingredienti, rigorosamente fatta a mano, come se volesse trasmettere, direttamente, senza intermediari, una sorta di sua energia spirituale positiva sui prodotti, niente frullatori o bacchette elettrici.

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Le mandorle bianche, private della buccia, vengono sparse sui canestri e lasciate ad asciugare in un luogo arieggiato. Ed ecco lo strumento imprescindibile che determina poi la qualità della torta: il macinino in ferro col tappo di legno. La figlia di tanta maestra, Maria, mi ha gentilmente concesso la ricetta che riporto fedelmente di seguito.

Ingredienti:

Mandorle 400 g.; Zucchero 400 g.; Uova 12; Farina 100 g.; un limone; liquore; cannella.

Per la preparazione:

Grattugiare la parte esterna della buccia del limone. Separare i rossi d’uovo e unirli allo zucchero, per mescolarli poi con un cucchiaio di legno, finché il tutto non si trasformi in un composto morbido e schiumoso.

Unire in una ciotola capiente, alla pasta di mandorle, preparata come indicato sopra, il composto di uovo e zucchero, la scorza del limone e gli albumi montati a neve ferma, amalgamando il tutto con un delicato movimento che va dal basso verso l’alto.

Aggiungere la farina, la cannella, il liquore e amalgamarli ancora, per qualche istante, con movimenti ritmati e leggeri, versando al termine il tutto su una tortiera appena unta (con olio d’oliva) e leggermente infarinata.

Mettere in forno caldo a 160° e cuocere per circa mezz’ora, finché la torta non assuma un colore dorato.

Una volta fredda si potrà scegliere o di cospargerla semplicemente con lo zucchero a velo o di ricoprirla, per le occasioni speciali, di una glassa così preparata: zucchero semolato 300 g.; zucchero a velo 250 g.; acqua di fiori d’arancio 2 cucchiai; succo di limone filtrato 1 cucchiaio; acqua quanto basta.

Preparazione della glassa

Versare su un pentolino lo zucchero semolato, l’acqua di fiori d’arancio, avendo cura di ricoprire il composto con acqua che ricopra lo zucchero di qualche millimetro sopra, cuocere a fuoco lento.

Mettere lo zucchero a velo in una ciotola, versare lentamente lo sciroppo e il limone. La consistenza non dovrà essere troppo fluida. Questo dolce composto che fuoriesce da un imbuto artigianale, come filo sottile, diventa decoro di merletto sulla torta che si arricchisce di minuscole colombe e di fiori, di buon auspicio per gli sposi.

La torta avrà come vino di accompagnamento una Malvasia di Cagliari DOC dolce al punto giusto e con un finale ammandorlato che richiama la torta che accompagna……………

Adriana Zuddas, Club per l’Unesco di Cagliari

Sicci- Dolianova 10.04.2021

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